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Vivo in poco più di 6mq e giuro che non mi manca nulla!

Tutto si incastra perfettamente come un semplice tetris ed ogni cosa coesiste senza motivo di intralcio.

In alcuni periodi dell’anno il sole penetra dalla finestra di destra, scorre su quella di sinistra regalandomi un’ora e venti di esplosione di colore!

Potrei permettermi di più.

Ma smetterei di combattere con lo SPAZIO!

Ho imparato a dominarlo, e mai lezione più importante potevo apprendere da questa esperienza.

Credetemi, per quanto possa sembrarvi assurdo, in questi 227x265 cm

c’è molta più magia di una veduta sul Central Park.

 

 

Novembre 2014

DI NUVOLE

Non saprei dirvi come è cominciato tutto ciò, non lo ricordo. Ma ho le immagini che testimoniano, fotografie da bambino, sempre con le spalle all’obbiettivo, quasi a sfuggire da quella micro esperienza della morte, come direbbe Roland Barthes.

Ecco. Adesso ricordo i miei 4 anni, forse 5, beccato da uno scatto che è rimasto nel tempo, intento a disegnare il mio primo cielo, blu, che si espande dietro ad una grondaia, dritto, frenetico. Avevo l’intera parete di casa a disposizione, ma scelsi quel punto, si, dietro ad una grondaia, fredda, arrugginita. Sorrido e do colore a quello che per altri è soltanto un pezzo di muro senza poesia.

Avevo già una visione altra delle cose, ed era bello. Ne ho prese un sacco di botte, oh sì se ne ho prese! Mia madre, ricordo, quanto la facevo dannare! Sarebbe bello oggi poter ripercorrere l’intero appartamento e vedere ancora lì intatti i miei “graffiti” che, ad altezza 60 cm, riempivano in maniera armonica le pareti.

Casa (HOME) guerra (WAR) speranza (HOPE) raccontavano una storia, che non avevo vissuto. HIDE (bugia), ma dentro di me c’erano e ci sono tuttora. Adesso mi rappresentano, come fossero etichette, allora me ne svuotavo come fossero pesi.

Continuavo a scrivere sui muri ogni giorno, non mi piacevano i fogli, amavo l’idea che i miei “graffiti” fossero lì, indelebili, per sempre, o quasi!

Mio padre imbiancava. Io davo un senso a quel bianco.

Animali, macchine, aerei, numeri, MiChELE SsPinaA 1992. Era bello firmarsi, dava un tono, e toglieva mia sorella, aspirante artista anche lei, dai casini. Ero stato io, si! Ed era bello.

 

 

 

 

 

 

 

E così dipinsi il mio primo cielo, e mi ci misi davanti per essere sole.

 

 

 

 

Da sempre amo guardare ciò che si trova accanto ai cassonetti dell’immondizia. Ed è proprio lì che per anni, e tuttora, alimento la mia fantasia. Mi piace andare nei bazar; le ferramenta sono le mie preferite e sono ossessionato dai multipli delle cose, siano essi fiammiferi animali o alberi.

Vado in questi luoghi senza un motivo preciso, senza avere un’idea sulla quale lavorare e sono proprio gli oggetti e le situazioni che mi suggeriscono le idee che successivamente sviluppo. Non sono il tipo che sosta per anni alla ricerca di una linea, o che sta chiuso in studio a forzare il lavoro. Ma davanti a 100 anonime bustine di plastica rimango per ore ad osservare e non pensando a un loro utilizzo.

Adoro uscire e girare, osservare e non lavorare intenzionalmente a nessuna ricerca.

Semplicemente “non penso”. Mi avvio e vado avanti.

Erano passati ormai diversi anni da quando avevo lavorato alle prime installazioni, alle prime opere pittoriche, che tutto sommato avevano nel mio piccolo un riscontro. Ma non ero felice, o meglio non riuscivo a leggere quel tratto distintivo che le associasse strettamente alla mia “mano”.

Per proseguire bisognava a questo punto fermarsi, capire e sforzarsi.

Avevo in cantiere un progetto sulle nuvole. Poetica e banale come cosa. Molti lavorano sul tema delle nuvole, a chi non piacciono le nuvole?

Certo… se sono di passaggio e non coprono il sole!

Perché adesso parlare delle mie nuvole? Un progetto che continua ad intrigarmi.

Perché è da lì che è nata la mia “scultura del vuoto”.

Ferro&lana.

Creai la prima nuvola, una struttura reticolata grande quasi quanto una macchina, poi un’altra e un’altra ancora e un’altra ancora… Le conservo ancora dove sono nate, lì nel mio garage, in attesa di un cielo definitivo.

Dicevo: creai dei reticolati, dove inizialmente pensai di mettere dei pappagalli. Erano gabbie. Andai avanti con queste strutture, leggere, in fil di ferro, vuote, invisibili, o meglio visibili solo in un ambiente sterile.

Pensai ad un cantiere, il luogo dei mille sacrifici di mio padre, presi una carriola e ce le misi dentro, una sopra l’altra, un work in progress del mio cielo. Scrissero un articolo su questo progetto. Era completo così, era ciò che cercavo da tempo perché fu proprio da lì che la mia strada prese piede.

Volevo rivestire le strutture con della carta pesta: orrende! Provai con dell’ovatta ed il risultato fu molto simile ad un mega cielo di un presepe vivente: ridicole! Le lasciai lì per mesi, forse quasi un anno. Fino a quando mia madre mi chiese di portare giù un sacco pieno di lana colorata che ormai non le serviva più. Tirai fuori un gomitolo, bianco, poi uno rosso ed iniziai a capire se in qualche modo potesse aiutarmi a risolvere la mia “questione” con le nuvole. Riempii le gabbie, ma non funzionava, cercai di passare il filo da un ferro all’altro, neanche.

Mi sedetti, forse imprecai. Presi la macchina ed uscii.

Per altri giorni furono lì, altri mesi, uno accanto all’altra, gomitolo e nuvola. Ci riprovai e senza uno schema preciso iniziai ad avvolgere i fili di lana sull’intera struttura di ferro.

Avvolgevo.

Un ottimo antistress, mi aiutava a pensare. Continuavo.

Finii la prima nuvola senza accorgermene e senza sapere cosa fosse. La sospesi al soffitto e la filmai mentre vuota e colorata girava su sé stessa.

Mi sedetti, rimasi spiazzato. Presi la macchina ed uscii.

Funzionava.

Chiamai Maurizio.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ormai sono mesi che lavoro a questo progetto..
..e sono mesi che la pioggia mi assiste!
Giuro di terminare al più presto.
Abbiate pazienza
..d’altronde l’estate in paese è una scocciatura!

 

 

VIVERE DI VUOTI

Non ho mai amato scrivere né tantomeno parlare, né di me, né di quello che fa parte di me. Amo il silenzio, amo la solitudine, amo e non mi piace essere amato! Vivo di silenzi ed è difficile trovarne in città.

La mia vita è fatta di colori il mio animo è buio!

Quando mi si chiede il perché di questo o di quest’altro di una mia opera, cado, zittisco, cerco di capire in quel momento anche io il perché. Dico la prima cosa che mi capita, che spesso ha a che fare con discorsi sull’equilibrio di colori, sulla ricerca di materiali o sulla tempistica: tutte bugie ma non saprei cosa altro dire. “E’ come chiedere a Mile Davis come suona la tua tromba” diceva Jean Michel Basquiat.

E’ un tormento, non è facile vivere di arte se cosi la si può definire. Tutto, da uno sguardo sulla strada mentre cammino ad un pensiero mentre saluto o davanti agli occhi dell’amore, lo affronto in maniera differente, cerco di vederlo da un modo altro e tutto ciò complica, oh sì se complica!

Ma cosa ne sapete voi? Voi che vivete omologati nei vostri abiti eleganti, relegati dietro ad una scrivania. Cosa ne sapete voi? Voi che aprite gli occhi con una sveglia ed avete le giornate già organizzate. Ma cosa ne sapete voi? Voi che l’amore lo cercate come fosse un tassello da inserire per vivere uno schema perfetto.

Provate a vivere di vuoti, provateci!

Circondatevene, cadete in questo baratro, alimentatevene e solo così scoprirete davvero cos’è la bellezza, il vivere sul filo del rasoio, su quel cado o non cado, ma proseguo. Vado avanti!

Gioisco.

 

DI SQUALI

Ero abituato a guardare i documentari sugli animali, amavo gli squali più di qualsiasi altra specie. Mi incutevano un terrore enorme eppure li trovavo di una estrema eleganza.

Cosa avrebbero potuto farmi se erano lontani da me? Niente. Mi sono sempre immaginato grande rispetto ad uno squalo. Tre metri di lunghezza? Cinque? Non ci ho mai creduto!

Assurdo!

Ho sempre avuto paura del mare, della profondità del mare così come quella del lago. Mi spaventa non poter vedere cosa c'è sotto di me. Amo nuotare, la sinfonia delle onde e del vento, amo l’acqua che mi avvolge, il silenzio che ottunde i suoni, amo il senso di sospensione dal mondo, il racchiudermi dentro, ma quel non vedere sotto di me, mi spaventa! Quasi fosse un vuoto. Forse c’entrano loro, gli squali, descritti sempre come voraci carnefici. Sì, penso: questa è una delle mie tante fobie.

La stessa che provo tutti i giorni, quella di non avere mai il terreno sotto i piedi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Era il 2006 e per la prima volta mi trovai faccia a faccia con uno “Squalo” di Damien Hirst. Provavo lo stesso disagio, lo stesso timore, la stessa ansia che provo tutti i giorni nei disordini della vita.

Ma ero solo, eravamo io e lui.

Io ero nel mio habitat e lui invece fuori luogo. Un fuori luogo che, nel corso del tempo, lo squalo ha imparato a dominare, tanto da essere ora padrone e carnefice della terra. Grande, luminoso, scintillante, senza eguali, lo squalo di Hirst intrappolato in un acquario: morto ma vivo per sempre.

Tutti i giorni andavo e restavo lì incantato per ore ad osservarlo, eravamo quasi in confidenza. Ormai era diventato un rito quello di incontrarci. Non ho mai criticato l’uso dell’animale né tanto meno il concetto da lui espresso; sono cose che non mi interessano. Ero semplicemente estasiato.

Sono andato avanti nella mia ricerca.

Sono passati 10 anni da quell’incontro e quella immagine così prepotente non mi ha mai abbandonato. Non mi sono mai chiesto il perché di come sia saltata fuori dalla sua testa.

Un banale squalo poi! Come dicono gli sprovveduti, coloro che pretendono di dare una motivazione a tutto!

Si. Sicuramente Hirst si è trovato al posto giusto nel momento giusto. Ha sfruttato la sua occasione. Tutti noi dovremmo coglierla la nostra di occasione. Ma non tutti abbiamo quella sensibilità che permette di capire se è l’onda da cavalcare o meno, l’onda che ti fa distinguere dagli altri. Lui lo ha fatto e tuttora domina la scena dell’arte contemporanea.

 

 

 

 

 

 

                  È incredibile dove si possa arrivare con un 4 in arte,

un'immaginazione bacata e una sega elettrica!”

Damien Hirst

 

 

Era l’agosto del 2015, uscivo fuori dalla mia foresta di cactus, esposti all’Auditorium del Parco della Musica di Roma, tirai la sedia dal tavolino del mio studio, aprii la finestra e presi uno dei tanti libri che non ho mai letto.

Mi piace l’odore dei libri nuovi, il rumore delle pagine, la casualità di leggere una frase per poi saltare ad un’altra e leggerne un’altra ancora. E così trascorrevo intere giornate, svuotandomi nel paesaggio.

Che io ricordi, nessun luogo come il mio studio mi regala questa sensazione di vivere senza tempo. E lì, un passo più indietro, lasciando la sedia per sedermi sul divano, scompaiono le montagne e davanti si staglia solo l’infinito del cielo.

Pensai al mare.

Poi passò una nuvola, un aeroplano, un piccione. Ed io continuavo a fissare quella dimensione altra e continuavo a vedere il mare, le onde, il blu, nient’altro!

Continuavo a sfogliare quel libro, del titolo neanche me ne importai, venni attratto da una parola in grassetto SHARK, smisi di guardare l’infinito, in un instante rivissi “The physical impossibility of death in the mind of someone living” di Hirst, afferrai la mia matassa di ferro e cominciai ad intrecciarlo, per ore ed ore.

Non smisi un attimo.

Procedo così di solito, sai come quando devi memorizzare un codice per trascriverlo subito sulla carta: non pensi ad altro.

Nessun disegno preparatorio, studio, schizzo.

Forse impiegai 6 ore e mezzo per realizzare la prima struttura di quella che sarebbe stata successivamente “Blu”. Era soltanto ferro e nastro isolante, ma funzionava già. Era leggera, fredda e contrapposta al sole proiettava delle ombre reticolate, come enormi ragnatele.

Ed ero preda di queste ragnatele. Affascinato non tanto dalla struttura quanto dalle ombre.

Gli squali, con il passare dei giorni, divennero due, poi tre, uno piccolo, un altro più grande. Con il passare dei mesi erano sempre di più: sette, otto… non ricordo bene neanche il numero preciso e non penso che questo sia importante.

Erano squali, o meglio erano strutture di ferro, fredde come la carne senza la pelle. Ed è qui che gioca un ruolo fondamentale la lana: metri e metri di fili colorati che con movimento alienante, quasi una sorta di danza, ripetuta sempre allo stesso modo, azzerano, annullano la pesantezza del ferro e le saldature. Gli squali non incutevano più terrore, avevano un sorriso beffardo e la lana svolgeva perfettamente il suo compito: peluches.

Ma c’era qualcosa che non andava, non negli squali, ma nella visione concettuale dell’opera in sé. Era banale.

Sono al gennaio del 2016.

Avvolto nei mille piumoni sintetici, vengo svegliato dallo squillo insistente del cellulare. Pronto? Ok, arrivo.

Venni convocato per una eventuale supplenza nel quartiere romano di Conca d’Oro. Non fui il primo in graduatoria: un’occasione perduta. Presi le mie cose, sempre le stesse, acqua, tenaglia, fil di ferro e nastro, e tornai sui miei passi.

Camminavo.

E come di mio solito lanciavo sguardi verso i cassonetti, nonostante non abbia chiare origini Rom. Venni attratto da una carcassa gialla, un’elica, un’ala. Non ero sicuro di quello che potesse essere, non mi fermai, continuai a camminare per l’intera giornata e continuavo a pensare a cosa sarebbe potuto essere. Forse giocattoli. Trascorsero diverse ore ma la curiosità di darmi una risposta era sempre più opprimente. Decisi di anticipare l’AMA. Presi la metro e tornai lì.

Era un aeroplano, in legno, con motore a scoppio, grande almeno 2 metri, giallo e pieno di olio di motore. Lo tirai fuori, presi qualche altro pezzo. Era spezzato. Rotto.

Lo portai a casa con me.

In quell’aeroplano c’avevo visto il cielo, il blu del mio cielo. Lo stesso blu del mare dei miei squali. Rivissi cosi la stessa situazione di “fuoriluogo” provata dinanzi lo “Squalo” di Hirst.

 

lui (Hirst) : io = squali : aeroplano

 

Li accostai. In questo viaggio insieme nel “Blu”.

Un viaggio che ha trovato una prima tappa nel Macro di Roma, il mese di ottobre 2016, in occasione di una collettiva degli allievi più meritevoli dell’Accademia di Belle Arti, intitolata “16:13”.

Un viaggio che continua, che sogna altre tappe, che possa essere un trampolino di lancio come è avvenuto per lo “Squalo” di Hirst.

 

 

 

 

 

 

Blu? Soltanto per giustificarlo a voi altri.

Per me squali ed aeroplano, niente di più!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Blu

L’opera è composta da squali volanti inseguiti da un aeroplano. Michele Spina nel corso della sua ricerca artistica è riuscito a trovare e realizzare sculture utilizzando una tecnica originale che contraddice la solidità della scultura stessa. Infatti l’artista crea sculture vuote, solidi costituiti da reticoli diradati con del fil di ferro rivestito di lana. Come è tipico nel linguaggio artistico di Spina, anche per questa installazione l’artista dimostra la sua ironia ma pone una denuncia verso i cambiamenti naturali dovuti alla noncuranza dell’uomo. La sua intenzione è di ricreare un non-luogo, né cielo né terra, animali tipici del blu del mare sospesi nel blu del cielo proponendo un’immagine che potrebbe portare lo spettatore alla riflessione se la condizione dell’uomo contemporaneo porterà alla catastrofe o avrà futuro?

 

Giulia Nicoletti

(testo critico per il catalogo della mostra al Macro, ottobre 2016, in corso di pubblicazione)

 

 

 

DI ALI

Quando decisi di realizzare le ali non lo feci per mia scelta, mi fu in un certo senso imposto. Le ali sono l’esempio per eccellenza del mezzo di superamento del confine a cui tutti gli esseri umani sono condannati: la gravità, ma “AliBlu” permette anche di sconfinare concretamente dai luoghi.

 

La scultura vuota e leggera è di colore bianco e azzurro, non solo per richiamare il cielo, ma anche per evocare il social network più utilizzato al mondo, mezzo più semplice per oltrepassare i confini fisici e mentali. Infatti l’opera è social, per questo il titolo ha l’hashtag (etichetta utilizzata nei social), ed è dotata di uno spazio in cui il pubblico può posizionarsi e scattarsi foto che pubblicherà online sui propri profili. Tramite questo mini-processo si creerà un luogo virtuale condiviso da numerose persone che interagiscono con l’opera, o addirittura diventano l’opera stessa.

 

Una luce al neon, posizionata al di sopra dello spazio riservato al pubblico, ricrea una sorta di aureola, simbolo di santità. Con un unico lavoro vengono contrapposti due fondamenti della società: la spiritualità e la banalità della quotidianità.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Vagai alla ricerca di un monte, con le mie ali blu in spalla

cercando di spiccare il volo, assaporare la libertà.

..non ci è permesso volare!

 

 

 

 

 

 

 

 

AliBlu, Facoltà di medicina Università di Roma, maggio 2016

 

 

 

 

 

 

 

 

SAFARI

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Avvoltoio, 2016

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Fagiano, 2017

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Orso, 2016

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Bufaga, 2016

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Giraffe, 2016

DI TESCHI

Non aveva tutti i torti la madre di Damien Hirst quando esclamò: “For the love of God” che tra l’altro è una classica espressione delle mie zone, traducibile più o meno così: “per l‘amore di Dio”. L’avrà esclamata centinaia di volte anche mia madre, rivolta a me. Ma non è questo il discorso.

Migliaia di dollari per tempestare di ottomila diamanti un banalissimo teschio. Un’assurdità penseranno in molti.

Ma è così che funziona!

La notizia, il far parlare di sé, porsi ai limiti della ragione e a volte anche della legalità.

Oggi fare arte non credo abbia più a che fare con discorsi concettuali o classicismi stereotipati. C’è bisogno del genio, della capacità di intercettare dove soffia il vento della sensibilità contemporanea, ed Hirst ne è l’esempio prorompente.

Scrive Alberto Zanchetta circa l’opera di Hirst: “Presumibilmente, l’ammonimento ricorda che devi morire è l’ultimo dei pensieri che pervadono lo spettatore di fronte a For the love of God. È alquanto improbabile che gli astanti si soffermino sull’opera per interrogarsi sulla beatitudine o sulla dannazione della vita ultramondana. Questo perché l’immagine offerta dal teschio è quella di una sofisticata vanità… Mai come in questo caso l’opera di Hirst riesce a épater le bourgeois, impresa che aveva mobilitato gran parte delle avanguardie storiche”.

 

 

 

 

 

 

I diamanti non valgono niente, sono solo carbone.

Però brillano, bello. Brillano, ti ipnotizzano.

Damien Hirst

 

 

 

Ho speso molto meno per realizzare il mio teschio, non più di qualche euro tra ferro e lana. Lavoro con pochi spiccioli cercando di ottenere il massimo risultato. Averne risorse più cospicue! Ma ci è toccato questo viaggio e lo viviamo così come ci è stato donato.

Non so perché mi sono ritrovato ad indagare la morte; sono anni, infatti, che ho a che fare con altro: il mondo animale, galline, cervi, pesci, squali, fagiani, papere. Poi teschi colorati. Boh!

Siamo bombardati dall’immagine del teschio, su magliette, cover, stampe, tattoo. I teschi sono ovunque e la simbologia della morte ci accompagna in ogni dove, trasformata giocosamente in qualcosa che non ha più a che fare con il macabro.

Il teschio è una moda, e riflettendoci inorridisce il fatto che oggi sia di moda in qualche modo la morte. Ma non pensiamo più alla morte, forse non ci abbiamo mai pensato, e questa simbologia nei tempi di oggi diventa cosa altra e la morte sosta in secondo piano. C’è ma non incute più paura.

Più o meno, penso sia nata da questo discorso l’idea di realizzare “Rainbow-Skulls”, sette teschi pantone con i sette colori dell’arcobaleno. Tutti diversi tra di loro, quasi a raccontare fisionomie di persone realmente esistite. Uno rosso uno giallo uno arancio uno verde uno celeste uno blu uno indaco ed è subito arcobaleno. È il colore a farla da padrone, a dominare, a mettere in secondo piano ancora una volta quella che è la simbologia della morte.

Sospesi, con fili di naylon, i teschi scendono dal soffitto ad altezza sguardo e, per un assurdo gioco di correnti, girano su se stessi proiettando ombre reticolate che rappresentano l’unico presagio di un discorso sulla morte.

 

 

 

 

 

La morte?
..soltanto il traguardo di un percorso di vita!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Rainbow-skulls, 2016.

 

 

 

 

 

ROMA NON E’ PRONTA

Non mi curo delle persone e non vedo per quale motivo loro si debbano curare di me. Vivo a Roma da ormai 3 anni e spesso sono oggetto di scherno quando magari prendo un autobus con un pollo, o con un cactus. Sarà la questione degli attentati, l’allerta terrorismo che tante fobie incute, ma non capisco perché ogni volta che esco di casa, sia di giorno che di notte, mi fermano, mi perquisiscono e a volte mi trattengono anche.

Non sono un terrorista.

Giro la città con strutture colorate e in questo grigiore generale destabilizzo. Ahuhuahuahauahu ridono i ragazzini, poi mi fotografano ed è subito virale, “welcome to favelas”.

Roma non è pronta, o forse non lo è la gente che vive a Roma. Pur essendo una capitale è pur sempre molto provinciale in fatto di vedute. Non si può essere diversi, la modernità omologa e se fai qualcosa fuori dagli schemi vieni deriso.

Ma chi li ha decisi questi schemi?

Giacca cravatta i-phone, manco fossero tutti manager. Nulla in contrario, anzi faccio parte della stessa generazione, ma giro di notte con gli occhiali da sole.

Molti sono gli episodi che mi hanno divertito, molti altri che mi hanno infastidito, ma uno su tutti mi ha toccato nel profondo.

Era il finissage di “10:16 generazioneH”, una collettiva, presso il Museo MACRO Testaccio di Roma, degli allievi più meritevoli dell’Accademia. Tutto andò per il meglio anche se avevo delle aspettative più alte rispetto al riscontro che sono riuscito ad ottenere. Colpa della mia presunzione. Tutto sommato una bellissima esperienza, delle settimane fantastiche dove si assaporava l’aria degli addetti ai lavori, dove le tue opere acquisiscono quell’aura del “non toccare”, che non ho mai condiviso tra l’altro.

Tutto molto interessante.

Non avevo al momento la disponibilità per fittare un furgone necessario al trasporto delle opere.

Come già detto, amo girare per strada con le mie cose ed attirare l’attenzione delle persone, amo le loro reazioni, mi incuriosiscono.

Afferro con una mano i miei squali, con l’altra l’aeroplano. Ero “ingombrante”. Mi incamminai verso la metro Piramide.

Entrai.

-Non può passare!

-Scusi?

-Lei non può entrare in metro con questa roba!

Chiesi per cortesia di entrare nell’ultimo vagone, dove di solito entrano biciclette.

-Le ho detto di NO!

Imprecai.

Venni circondato da due militari, poi quattro.

-Ahoo, ma non te vergogni d’annà n’giro co ste robe? Ma che problemi hai? A che te servono? Ma che stai a fà qua? Perché non te ne torni a casa?

Era quello che volevo fare.

Accettai gli insulti senza rispondere. Ma nooo.. tanto lo sapete che non è da me. Rispondevo a muso duro, con arroganza. Come di mio solito.

-Lei rappresenta un pericolo per la sicurezza dei nostri passeggeri, non può prendere la metro né tantomeno sostare all’interno della stazione!

-Mi può spiegare il motivo?

-Non sappiamo se, oltre questo, può trasportare oggetti che ledono la sicurezza dei nostri passeggeri.

-Ovvero?

-Bombe!

Rimasi senza parole e mi sedetti a terra. Sembrava tutto surreale.

Noi discutevamo e decine di persone entravano senza biglietto e con oggetti altrettanto ingombranti, compreso un water di porcellana tra le mani di un novello Duchamp, ma tutto era normale per la sorveglianza, tutto è normale per Roma: sembra quasi che stia parlando di Napoli.

Mi sentii ferito, la voce mi tremava dalla rabbia.

Mi fecero alzare e con 4 mitra puntati alle spalle, il direttore della stazione di Piramide mi invitò ad uscire fuori. Pioveva!

Ecco posso capire tutte le motivazioni di questo mondo, avevano anche ragione in un certo senso, ma la cosa che non sono riuscito ancora a superare è lo sguardo con il quale i soldati e gli addetti dell’ATAC mi fissavano. Come se fossi un pazzo, come se non appartenessi a questo mondo, come se avessi avuto chissà quale problema psichico per andarmene in giro “con sta roba”.

Eppure non erano le armi che impugnavano loro, erano pezzi di anima, la mia.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Duchamp si…

 

..

..io no!

DI ARMI

 

Scriveva Pino Pascali, a proposito delle armi, in una lettera a Michelangelo Pistoletto: “In una civiltà di consumo le immagini assurgono (falsamente) a simboli e creano quel fenomeno tipico che definisco (per) “RETORICA DELL'IMMAGINE”.

Per questo ho scelto il “CANNONE”, la “BOMBA”, le armi. Esiste intorno ad esse tutta una rappresentazione simbolica che la pittura figurativa ha utilizzato al massimo deconnotando meramente l'oggetto. Tanto più il soggetto è avvolto in questo magma di retorica tanto più per me è importante “RECUPERARLO”.

Per questo credo sia necessaria un'azione critica in cui il recupero dell'oggetto sia basato nelle capacità oggettuali del mezzo linguistico. Penso che il problema è di ripulire l'immagine da qualsiasi attributo e simbolo ricollocandolo nella sua presenza oggettuale. Perciò con la mia azione di scultore cerco di recuperare dall'immagine di consumo del cannone e della bomba quella presenza oggettuale che mi interessa.

 

CANNONE=C+A+N+N+O+N+E / BOMBA=B+O+M+B+A

 

Come una parola fatta di tante lettere le mie armi sono fatte con tanti oggetti. Il cambio di un'automobile può essere un affusto. Le ruote di un camioncino le ruote di un cannone. Il carburante di un'auto il telemetro di un semovente. Una strozzatura di un tubo di idraulica può essere il raccordo di una bocca da fuoco. Un parastrappi, un semiasse, un pistone di motore, una centina ad uno sportello d'aereo, una cassetta di ferri da lavoro ed altri “oggetti trovati” possono divenire parti integranti di una struttura bellica collocati in maniera differente della loro usuale utilizzazione.

Quello che manca, quello che non trovo già fatto lo costruisco in legno o ferro, a secondo come penso sia meglio. Alla fine per distruggere ulteriormente le differenti presenze di tutti questi oggetti ben precisi ed autonomi per strutturare l'IMMAGINE in una sola unità li vernicio completamente con la stessa vernice standard “CACKI-OLIVA” usata dall'esercito.

Tanto più sembrano veri tanto più la mistificazione è riuscita”.

Le armi di Pascali erano ancora quelle della rivoluzione del ’68, innocue, pacifiche. Anche oggi però, dinanzi alla violenza che dilaga, c’è bisogno di riscoprire delle armi che siano solo giocattolo.

Come una parola fatta di tante lettere

le mie armi sono fatte con tanti oggetti.

Pino Pascali

BANG BANG BANG urlavamo da ragazzini nel quartiere.

 

Sono sempre stato attratto dalle armi: chi di noi non ne ha posseduta una? Quelle giocattolo le compravo in ogni dove. Amavo quelle ad aria compressa, mi davano un tono.

 

Appostato sul balcone di casa, dopo aver messo le briciole della mia merenda, aspettavo in agguato i passerotti. BANG sparavo! Sapevo che non sarebbe successo nulla al passero. Era soltanto aria compressa, amavo spaventarlo. Amo gli uccelli, la loro leggerezza.

 

Non ho mai sparato con un'arma vera e non ne ho mai vista una. Anzi si! Mi ero trasferito da poco a Napoli, quartiere di Montesanto. Era l’inverno del 2016 e tornavo verso casa con il mio pacchetto di Merit da 10.

 

-O cellulare o tien’? Cacc’o cellulare!

 

Ricordate il Motorola V3? Forse non ne hanno mai fatti più di telefoni con quel design eccezionale. Io lo ricordo a malapena, lo avevo comprato da tre giorni e alla vista della mia prima arma, puntatami contro, ci separammo. Per sempre.

 

Fu un'esperienza strana, particolare. Piano piano iniziai a vivere la città di conseguenza, facevo giri assurdi per non passare più di lì, senza neanche accorgermene. Stavo poche ore fuori casa, giusto il tempo per qualche faccenda o una capatina in Accademia. Poi correvo a casa e sprofondavo nel baratro.

 

Ansie, panico, benzodiazepine.

 

Avevo visto soltanto un’arma. Vera! Nulla di più, ed è strano come cambi la vita alla vista di un’arma. Cambia a seconda dei ruoli che si assumono: vittima o carnefice.

Io fui vittima, ma questo non fece spegnere in me l’amore per questi arnesi freddi, senza emozioni.

 

Ripresi le redini della mia vita. Lasciai Napoli e fu la volta di Roma.

 

Charlie Hebdo e fu panico in tutte le capitali europee. Si susseguirono Bataclan, Nizza e Monaco.

Prendevo la metro e sul volto delle persone leggevo la paura, l’ansia, la stessa che avevo vissuto intensamente io. C’erano soldati ovunque e la fobia cresceva, gli attentati continuavano. Bisognava che facessi qualcosa, per me, per autotutelarmi, per proteggermi nel profondo.

 

E fu così che pensai di "armarmi" di ferro e lana!

 

Per la prima volta non mi guardavano con disagio, con disprezzo per quello che portavo sotto braccio. Non erano squali né cactus né polli, ma Kalashnikov, fucile da caccia, mitraglietta, modello giocattolo. Nella metro entravo con estrema facilità, nonostante i controlli intensivi, entravo senza destare attenzioni particolari.

 

Per la prima volta, armato, non mi sentivo diverso.

Bang-Bang-Bang, Apice Castello dell’Ettore, 2016

DI RICETTE

Quando hai 29 anni, 2 lauree, di cui una in loading, esci e bevi qualche birra con gli amici. Birre apparentemente identiche a quelle di 70 centesimi ma il fatto che costano 8 euro e sono calde le rende più speciali. Ma ormai sei nel giro e continui a versare 8 euro da  vero bomber.

Vai a dormire per cullare i tuoi sogni... Ma non prima di aver mandato un messaggio a qualche culo bello. Ti svegli, fissi le tue lauree e ti ricordi poi che non hai un lavoro perché purtroppo sei nato e vivi in Italia e la meritocrazia è un'altra storia!

Bestemmi e con lo “sparagno” (senso del risparmio) cucini la pasta in bianco (55 centesimi al chilo e ci mangi 10 giorni), per bilanciare la spesa della birra. Bestemmi perché vedi che un lavoro inerente a quello che hai studiato non esiste! Bestemmi ancora nel momento in cui arrivano visualizzazioni a messaggi di una mediocrità imbarazzante inviati la sera prima un po' brillo.

Così cominciano le mie giornate di merda, e giù un'altra birra da 8 euro.

 

 

 

 

 

Cucinare ad arte

 

Spina ha realizzato con tondino di ferro la struttura di una cucina economica con tanto di fornelli, forno sottostante e bombola del gas.

Sui fornelli sono poste tre padelle contenenti rispettivamente un teschio, una mano e un cuore. Nel piano sottostante fa bella mostra di sé un pollo con a fianco la bombola del gas.

L'ambiente è illuminato da una lampadina che pende dal soffitto e completato da una serie di specchi a parete.

La particolarità di quest'opera consiste nell'aver avvolto in modo minuzioso la struttura, utensili e cibo con fili di lana di colore diverso, descrivendo in modo "grafico" volumi e corpi vuoti.

Se da un lato in quest'opera è evidente la parodia alla moda del momento e cioè lo street food, dall'altro la presenza di cuore, teschio e mano tagliata rimanda ad un immaginario trash proprio del mondo creativo punk e underground.

 

 

Ciriaco Campus

 

(testo critico per l’installazione “Cucinare ad arte”, SPAZIO MOBILE, portico aula scultura, Accademia di Belle Arti di Roma, giugno 2015)

Cucinare ad arte, SPAZIO MOBILE Roma, 2015

ECCOMI QUA

IN MEZZO ALLE OCHE

 ​

CON IL CORPO

CON LA MENTE

CON L’ANIMA

DENTRO UN’INSTALLAZIONE

DI MICHELE SPINA

LA PRIMA SENSAZIONE

LA SECONDA

E INSIEME

DI TANTI COLORI

VERE COME

SA ESSERE LA FUNZIONE

IMPROBABILI COME

SA ESSERE LA REALTA’

IN VOLO

FERME ALTRE

PRONTE COME ME

AD ALZARSI IN CIELO

RASSEGNATE COME ME

A RESTARE IN TERRA

 

TUTTE DIVERSE

UNA DALL’ALTRA

CHE STANNO BENE

CHE STANNO BENE

PER CAZZI LORO

CHE NON STANNO BENE

COME ME

COME ME

COME ME

 

OCHE SOTTRATTE ALLA NATURA

SENZA ARIA

PER BATTERE LE ALI

SENZA ACQUA

PER RINFRESCARSI

SENZA TERRA

PER TROVARE RIPOSO

TRA MURA BIANCHE

SENZA AZZURRO

SENZA VERDE

E SE FOSSERO

GLI ESSERI UMANI

COME LE OCHE

DI MICHELE SPINA?

CAPACI DI VEDERE

SE’ STESSI

IL PROPRIO COLORE

INCAPACI DI VEDERE

GLI ALTRI

I COLORI DIVERSI

INCAPACI DI AMARE

GLI ALTRI

 

E SE FOSSERO

GLI ESSERI UMANI

COME LE OCHE

DI MICHELE SPINA?

DI ESSERE LIBERI

E INVECE INGABBIATI

DI MUOVERSI

E INVECE BLOCCATI

DENTRO LE ZOPPIE

DEL MONDO MODERNO

 

MA FORSE E’ SBAGLIATO

PORSI DOMANDE

FORSE E’ INUTILE

MEGLIO LASCIAR PERDERE

MEGLIO FARE

COME IL CORVO NERO

DI MICHELE SPINA

E VEDERE LE OCHE

QUESTO IN FONDO

CI E’PERMESSO

POCA COSA SI

MA QUALCOSA

 

IN MEZZO ALLE OCHE

ECCOMI QUA​

 

 

Maurizio Cimino

Forse dovrei parlare degli amici, dei genitori, dei docenti e di tutte quelle persone che in qualche modo hanno incrociato questo mio percorso, ma sinceramente non avverto l’esigenza di suonare sdolcinate serenate di rito, tanto più oggi, che piove a dirotto, tra l'altro, e l’umore mi dice di procedere in maniera diversa.

 

Tutti voi, in fondo, sapete cosa avete fatto per me, ed ognuno di voi che stringerà tra le mani questa piccola biografia, inserita tra le pagine di una tesi, in questo momento accennerà in volto un sorriso pensando a quello che abbiamo condiviso in questi anni.

 

I sacrifici, le ansie, le gioie vissute, lasciamo tutto alle spalle: è tempo di proseguire per alimentarci di emozioni altre.

 

E se proprio devo ringraziare qualcuno ringrazio il Signore, non Dio, ma quello che nella metro mi avvicinò e mi disse:

 

“Non sentirti osservato, non sei tu diverso, sono loro tutti uguali

 ..buona fortuna!”.

Il signore della metro

PUBBLICAZIONI CONSULTATE

 

Considerando le caratteristiche del testo, che rappresenta un bilancio della mia vita e della mia attività più recenti, con riferimenti a testi elaborati per me da critici d’arte, mi limito a riportare qui solo le pubblicazioni consultate a proposito delle “assonanze” con Damien Hirst e Pino Pascali.

 

 

Damien Hirst

 

  • ALESSANDRA MAMMI’, Mister Butterfly. Colloquio con Damien Hirst, in L’Espresso, 7 ottobre 2004.

 

  • ANNA DETHERIDGE, Aggrediti da Hirst, in Il Sole-24Ore, 14 novembre 2004.

 

  • ALBERTO ZANCHETTA, Frenologia della vanitas. Il teschio nelle arti visive, Johan & Levi editore, 2011.

 

Pino Pascali

 

  • ANNA D’ELIA a cura di, Pino Pascali, Editori Laterza, 1983.

 

  • ANNA DETHERIDGE, Pascali vivace fino all’osso, in Il Sole-24Ore, 23 maggio 2004.

 

CAROLE BLUMENFELD, Pino mediterraneo, in IL GIORNALE DELL’ARTE, settembre 2015.

Rat-carpet, museo Macro, Roma 2016

 

“..vi siete dimenticati di me. Ci sono anche io!

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